Dichiarazioni

Sono qui riportate le sole due dichiarazioni relative alla propria pittura rilasciate da Gian Carlo Benelli.

I GIARDINI DI VENEZIA, DALL’ALTRA PARTE DEL MURO

(Lettera inviata nell’anno 2001 su richiesta di una gentile signora veneziana)

 

Gentile amica,

nell’inviarmi il graditissimo libro, lei mi chiedeva, se ho ben capito, di farle avere qualche riga sul mio rapporto con i giardini di Venezia; perché Venezia appare, come già le dissi, città verde come poche altre, ma d’un verde che l’estraneo non può attingere né esplorare; può soltanto intuirlo.

Il verde di Venezia è un rampicante che corre oltre un muro e di lì ridiscende nell’acqua silenziosa del canale, stabilendo un percorso segreto tra il quotidiano dei passanti, la vita coi suoi rumori, le sue ansie, il suo moto incessante, la sua nitida luce; e un mondo altro, nascosto e indecifrabile, che la fantasia costruisce a suo piacere senza mai fissarne i contorni, come il paesaggio delle fiabe. Il verde di Venezia sono cime d’alberi slanciate oltre quel muro, soltanto qualche ramo si distende timido a varcare il confine.

Ho conosciuto Venezia in gioventù, negli anni ’50, e vi son tornato più volte; ma per oltre un ventennio, tra la fine degli anni ’60 e il 1991, Venezia fu la mia meta assidua, il mio luogo di meditazione e di studio. Perciò, quando ne parlo, la “mia” Venezia è la Venezia degli anni ’70 e ’80, che ho percorso con la pedanteria d’un topografo, intenzionato a rilevarne tutte le immagini con le quali la mia fantasia potesse intrattenere un dialogo.

Perché Venezia? Perché una casa che sorge dall’acqua, un albero che nasce al riparo d’un muro, barche e barconi colorati, immobili e vuoti dinnanzi a una porta chiusa -ma sempre nello stesso luogo, anno dopo anno- costruiscono non soltanto un mondo di simboli, ma architetture metafisiche levitanti nei cieli, città sognate dei mistici d’oriente. Perché la violenza del colore, il rosso dei mattoni che insanguina i muri, ferite stupefatte d’intonaci crollanti nei canali d’onde il verde putrido delle alghe sale, s’insinua e tutto corrode; il brulichio variopinto delle vernici; l’ignoto orrore d’acque melmose che riflettono impenetrabili il mondo della luce; tutto questo aveva il fascino d’una rutilante decomposizione, tripudio di vita che si nutriva di morte. Su tutto questo, il verde, l’albero custodito nel giardino segreto, le foglie appena mosse da un impercettibile soffio che spinge bianche nuvole leggere, e un barbaglìo di luci rifrante su quei mutevoli specchi.

Ecco, io ho un ricordo del verde di Venezia che si confonde con quei muri che lo cingono, e con le improvvise folgorazioni che mi facevano “vedere” mondi ben più seducenti, forse, di quelli che mi venivano preclusi. Dipingere con l’occhio del metafisico, è incatenare lo spettatore ai nostri stessi interrogativi, costringerlo a domandarsi con noi che cosa c’è dietro un angolo o una facciata, che cosa si nasconde dietro un muro o una svolta della via -o della vita. Una domanda alla quale non si può rispondere varcando un cancello, percorrendo lo spazio degli ammessi. Il labirinto è mentale, l’escluso vede ciò che il recluso ignora: è preferibile lasciare il mistero dov’è, previlegiare il periplo sul disvelamento, costruire con la mente ciò che nessuno potrebbe con le mani. La pittura è un felice mondo dell’intelletto, perché, priva com’è d’una dimensione, può leggere in ciò che appare ciò che è.

Giungevo a Venezia poco dopo l’alba, dopo aver viaggiato di notte in seconda -ero giovane- e iniziavo subito una strenua lotta con la strategia dei percorsi che m’avrebbero portato di nuovo al treno, al tramonto: ad ogni ora e ad ogni luce doveva corrispondere una precisa esplorazione, elaborata al tavolo nei giorni precedenti, come un piano di battaglia. Dieci ore di percorso quasi ogni settimana; qualche volta mi concedevo un breve soggiorno e mettevo in atto una diversa strategia. Un amico trasportatore mi trascinava col suo barcone per tutti i canali e canalicoli immaginabili, e anche sul mare aperto, aprendomi nuove prospettive. Era sempre con me il fedele apparato fotografico, col quale scattavo centinaia d’immagini per ricostruire un tessuto urbano tutto mio, sul quale innalzare poi la mia realtà, quella della mia prospettiva.

Già da qui si comprende il rapporto che stabilivo con i giardini di Venezia. Il viandante, colui che percorre un percorso, dipana e ingarbuglia coi passi un groviglio di perimetri, tanto più in un tessuto imprevedibile come quello veneziano. Un viandante, che affronta il dio del luogo ponendosi sotto la sola protezione di Hermes, è per definizione un dislocato, è colui che non si colloca, che giunge ovunque -come le strade- ma non ha un “luogo”, non è “del luogo”; perciò s’arresta sulle soglie, come Hermes, e fa, come lui, della strada la patria, il punto di riferimento per le proprie coordinate spaziali e culturali. Questo dislocamento, e la sovversione del mondo in trasparenza d’Altro grazie al nascondimento/disvelamento mediato dal muro e dalla soglia, fondano una mappa immaginaria anche dei giardini, dei quali il viandante ignora le dimensioni, la storia, le architettoniche delizie e le prelibatezze botaniche dei golosi e gelosi padroni, sicché gli accade di sovvertire le gerarchie ch’essi pur vorrebbero fondare, e fondano, ma soltanto per gli ammessi. Fuori dall’hortus conclusus il mondo è Altro, altre le gerarchie, e il Sacro può apparire nel rapporto dell’albero col muro, con la luce del cielo, dell’acqua o della via; con le geometrie dell’esterno, con le sorprese del percorso, della svolta, dell’angolo che nega, e poi, d’un subito, ostende e ri-vela.

Riguardo ora le centinaia di foto scattate negli anni con la puntigliosità dell’esploratore, che colleziona non certo immagini d’arte, ma scatoloni d’appunti, di particolari analizzati, di panorami sezionati e ricostruiti, mosaici destinati a ricomporsi in geometrie sognate nella severità conventuale di un altro spazio chiuso, quello del tavolo, delle carte, degli strumenti di misura che reggono la periegesi domestica. Guardo o ripenso le mie 472 “Venezie”, e tutto controllo sullo stradario e sulla grande veduta aerea. Cerco i miei luoghi e quelli del libro, confronto l’interno e l’esterno, l’aldiquà e l’aldilà del muro. Cerco, uno per uno, i miei giardini, i miei alberi, e li rapporto a quelli consacrati dalle certezze della storia documentale. I due mondi non coincidono, il muro è bifronte, sottende l’alterità e l’impone, perché la crea, anche se finge di non saperlo.

Un luogo però lo riconosco subito, nel libro: i giardini di Rio del Battello, e non per caso. È l’esterno che vi si offre, ed è sempre eguale nel suo incanto, col suo barcone rosso e blu ch’è sempre lì da decenni a confrontarsi col verde del canale, col rosso, col verde e col blu del muro, degli alberi, del cielo. A Venezia i luoghi si possono riconoscere anche dalle barche ormeggiate, sono le divinità del luogo, erme, guardiani. Alberi, acqua, muro, cielo e barca di Rio del Battello che sono anche nei miei quadri, ora chissà dove.

Era il primo luogo che visitavo, appena sceso a Santa Lucia. Cannaregio è sempre stato il mio riferimento preferito, e di lì la prima ricognizione s’inoltrava al Rio del Battello per una stretta calle, ricordo, delle Muneghette, che la forbita carta ufficiale mi proponeva come “delle Convertite” (la prima volta dovetti usare bussola ed ermeneutica, per capire). Lì non trovavo un giardino, ma un bosco, una vegetazione fitta, maestosa e altissima che confondeva i rami bassi con l’enfasi dei rampicanti rovesciati oltre il muro, a cercar l’acqua del canale. Ricordo la difficoltà di registrare tanta esplosione nel ristretto spazio dello sguardo, che costringeva a inverosimili prospettive. Ignoravo lo spazio interno di quel giardino, e soltanto dalla mappa aerea lo scorgo ora tutt’uno con l’altro, che mi pareva altro mondo, cui accedevo dalla sacca sul Rio della Misericordia, arboreto che dal lungo muro ombreggiava il prato multicolore dei barconi al sole.

La mia prima ricognizione era sempre quella, da Rio del Battello alle Case Nuove e poi, zigzagando alla ricerca di ogni possibile punto di vista, lungo i tre canali che dal Ghetto Nuovo giungono al mare aperto, e i lungo bracci che li uniscono. Là spuntavano ovunque i miei “giardini”, e inutilmente la foto aerea vuol convincermi che si trattava abitualmente di non più di quattro alberi in un cortile. Anche un solo albero che spuntasse, con un glicine, da un muro più basso, per riflettersi nell’acqua: quell’albero mi lasciava immaginare segreti paradisi. Anche due pioppi dritti nel cielo, sopra un capannone. Su tutto la luce, che lì è più azzurra, come turchese è l’acqua negl’improvvisi panorami che s’aprono dalla Sensa dritti al mare; e i tre percorsi tutti erano segnati da piccoli boschi domestici, che il tramonto infiammava fondendoli al rosso dei mattoni. Bastava a volte un solo albero, come quel pioppo che ricordo all’angolo della Sacca di Alvise, prima dello squero cui si accedeva -incredibile!- da un sentiero campestre sul retro. Un giorno passai con la barca, e il pioppo che segnava l’angolo non c’era più. Segato. Al suo posto un orrendo gazebo in vetro e anodizzato giallo. Non è necessario essere proustiani per piangere la morte d’un paesaggio urbano: penso a quello squero e mi domando se c’è ancora, manco da molti anni. Sulla parete del mio ingresso c’è ancora, coi muri del capannone impazziti per la pioggia di vernici rosse e blu, sovrapposte nel tempo: ne ho registrato i particolari. So che intanto sono scomparse, sotto il restauro, le facce sconquassate dei due casermoni del Ghetto, strapiombanti otto piani di finestrelle sul canalicolo putrido: di loro annotai una a una le ferite, e la grande tela mi guarda mentre scrivo al computer. Venezia resta, per me, la città degli anni in cui giunse al massimo la sua fantasmagorica decomposizione: il Canal Grande non l’ho mai guardato, ma i luoghi minori e segreti, dove a quel tempo non s’incontrava anima viva e dove, con sinistro presentimento, alla fine degli anni ’80 vidi sbucare un formicaio di giapponesi lampeggianti.

In quei luoghi incontravi allora case diroccate, finestre e porte sprangate, muri osceni di lebbra, e il silenzio. Se qualche muro cadeva, potevi vedere “dentro” quei giardini alla buona e inselvatichiti, come mi accadde dalle parti di San Giacomo dell’Orio, non ricordo dove; anche una casa abbandonata e diruta, coperta d’edera e di rovi, poteva trasformare in campagna l’entrata d’un rio, come anche una ripa incolta che scorsi sul Rio della Misericordia. L’importante era traguardare tutto nel modo che eccitava la fantasia: bastava un albero sul Rio San Barnaba, un’acacia cresciuta per conto suo e un prataccio lì accanto che terminava nel nulla, per creare realtà rurali. Da Campo Zappa, il campanile dei Carmini solleticava il ventre di bianche nubi riflesse nell’acqua glauca, e ti pareva la roggia d’una pieve. Le rovine, la vegetazione spontanea, erano anch’esse giardini della memoria, invocazioni troncate nell’ascesa al cielo. Ricordo un’incredibile cattedrale di macerie in fondo al Rio Ognissanti, verso l’Avogaria. Un bel giorno, nell’ultimo viaggio, le trovai ricostruite: dadolini ammodino, bianchi e rosa, intonacati d’acrilico. Addio scialbature sulle quali divagare come su carte geografiche! Complimenti a chi ci abita, io non ci passo più: ciò che la rovina rendeva grandioso e sublime, il buonsenso ha restituito alla quotidiana insignificanza.

Sempre a Ognissanti, s’apriva per me, e s’apre ancora, credo, uno dei più straordinari giardini davanti all’elegantissimo ponte Trevisan, che mi figuravo come quello di Cinvat. Lo vidi dal basso e lo fermai nella fantasia come un giardino pensile tra magioni turrite, col ponte a far da tramite, sottile e flessuoso come una lama. Qui la foto aerea mi dà ragione: il bosco c’è davvero. Come c’è davvero quello ritratto tante e tante volte tra le fondamenta Moro e Grimani, tra i Rii del Trapolin e di Santa Fosca; o quello sulla punta che divide il Rio di Noale da quello di San Felice. Soltanto ora il libro m’ha insegnato, ma l’avevo intuito, che Cannaregio è uno dei luoghi più verdi; ma non è il solo.

Un altro luogo deputato per la costruzione dei miei giardini si trovava in un’altra periferia, nel quadrangolo tra Santa Marta, i Tabacchi, le Fondamenta Rossa e Briati. Lì, una parte di ciò che credevo di scorgere mi fu detto essere un campo sportivo abbandonato tra le case, d’onde gli alberi facevano capolino simulando chissà cosa: la foto aerea, ora, me lo conferma. Altro verde si è rivelato quasi agreste, ma per me erano chiome selvagge sopra i tetti, o file di pioppi a intercalare i vuoti tra le case, e un fico, che non trovava il suo spazio: il resto, un mistero. Misteriosamente grande e aggrovigliato mi appariva, al contrario -ma erano pochi alberi in fila, dice la foto aerea- il verde che bordava il Cotonificio, vis-à-vis col boschetto di ordinate robinie davanti ai Mendicoli; visti dal basso, dal canale, i rami s’intrecciavano a galleria. Ci si arrivava alla svolta delle Terese (o “Teresie”? ricordo bene?) dopo l’apoteosi metafisica di quella serialità illuminista, dove ogni palmo d’intonaco s’era fatto diverso per la diversa profondità del distacco e del rattoppo, oltraggio della materia e della vita alla Ragione calcolante. Ora, mi dicono le cronache, la Facoltà d’Architettura ha fatto tutto nuovo e tutto bello, case e Cotonificio; alle prime ha rifatto anche le scarpe, alzando il tacco. Buon per loro, ma non per me; è un altro ricordo che svapora, è giusto, i ricordi sono leggeri, non hanno il peso dell’economia. Mi restano le grandi tele e le “strisciate” fotografiche.

Altro verde a sorpresa, quello che sorgeva nello sfascio generale di Rio Riello e Rio Sant’Anna, tra l’Arsenale e San Pietro: ho letto da qualche parte che era il regno di Kociss, certamente era un luogo degradato. Eppure, da non so quale cortile, spuntava sempre l’albero, d’un verde leggero e pallido nel cielo di primavera; e una lunga fila -un giardino?- l’ho trovata (posso documentarlo, anche se la foto aerea vorrebbe smentirmi) dietro un muro sgretolato. E ancora: alberi che spuntano dal nulla di cortiletti indecifrabili che cerco invano sulle mappe, e giardini misteriosi intravisti oltre un arco aperto, oltre un muro sfuggente alla curva d’un rio, quello di San Severo là dove confluisce nel San Provolo.

Di tutto questo trovo scarso riscontro in ciò che un topografo definirebbe “realtà”; ma la topografia -o la topologia- d’un sogno, non è altrettanto vera? quante sono, le “realtà”? Anche il mio obbiettivo è accreditato d’una “realtà fotografica”, eppure vede diverso. Forse pensa diverso, forse le sue lenti hanno scomposto e ricomposto i raggi luminosi inventando un sogno, forse m’inganna o l’aiuto io ad ingannarmi, in ogni caso siamo complici.

Una cosa non può negarsi, i sontuosi giardini del libro esistono, anch’io debbo averli intravisti dietro il muro, ma non li avevo pensati, non li avevo capiti e avevo almanaccato altro. Così è potuto accadere che io accettassi senza stupirmi, e metabolizzassi in uno spazio altro, in un’architettura fantastica, un nobile viale di cipressi intravisto dal mare aperto. Là, il libro testimonia ricchi e segreti giardini alle spalle di Santa Maria dell’Orto e Sant’Alvise; io, costeggiando l’esterno, rimasi sorpreso da una piccola selva addossata a una maceria, che innalzava nel vuoto un portale di palanche grigie, sentinella del nulla; mentre i cipressi, per l’appunto, sfilavano in processione dalla finestra sfondata di una parete superstite, dietro la quale era soltanto il cielo.

Gentile amica, non so se ho potuto darle un’idea di quanto diversi erano i miei giardini da quelli aristocratici del libro, per me sguardo sull’interdetto, oltre il velo del Santuario. Chissà, se tornando a Venezia immaginerei ora diversamente; ma non ci tornerò, o lo farò da turista. L’ultima volta che la percorsi, nel 1991, mi accorsi che un lento metabolismo, già percepito negli anni precedenti, stava cancellando il ricordo. Al posto d’intonaci scrostati dai mille colori, fantasmagoria della dissoluzione; al posto di finestre sgangherate o sbarrate e di stipiti obliqui, di portoni allucinati e cavi sul nulla dei canali; al posto di alberi spontanei e di rovi e rampicanti selvaggi germogliati sull’abbandono, che s’ingigantivano nella fantasia come domestiche selve; ordinati cubetti di pastello s’allineavano nella noia, nella trita miseria d’un modesto decoro. Quella Venezia non era più splendida, tragica, folle, allegra: la quotidianità aveva ripreso i suoi diritti. La morte può rendere eroico un insetto, la vita è di solito banale, se non è quella sontuosa e patinata dei Vati e dei Mecenati.

Anche quella però, si ripete nello sbadiglio: soltanto la decostruzione annuncia l’inaudito.
L’ultimo giorno che fui a Venezia, camminavo a malapena. Una lunga settimana di esplorazioni e acrobazie con un apparato fotografico che, nel frattempo, era assai cresciuto di peso in parallelo col benessere nazionale, mi aveva procurato una tremenda lombalgia. Fu così che feci l’ultima scoperta: non potendo che aggirarmi lentamente attorno alla stazione in attesa del treno, scoprii ciò che non avevo mai guardato, per radicata sfiducia nei quartieri delle stazioni. In quel luogo impensato, altri giardini spuntavano dietro i muri, lungo un canale non lontano dai binari; Venezia non aveva finito di sorprendermi. Questa è l’ultima immagine che porto con me; sarei dovuto tornare per riprendere il dialogo, ma non l’ho fatto né lo farò: una vicenda si è chiusa. Ora, il libro mi sollecita rivelandomi che cosa c’era dietro quei muri, e lo spirito scientifico prende il posto della fantasia mentre cerco di ricostruire i percorsi sulla grande aereofotogrammetria: curiosità di chi s’interroga sul rapporto tra i frammenti di vetro e le immagini del caleidoscopio.

Questo è tutto, o quasi. Mi resta soltanto di augurarmi che i cunicoli della mia memoria abbiano potuto contribuire a proporle un altro volto della sua città, una tessera da aggiungere alle infinite altre che trasformano l’esperienza nella conoscenza, sempre e comunque soltanto in una prospettiva.

Ringraziandola ancora per il suo dono, e ricordando la sua gradita visita, con cordialità

Gian Carlo Benelli

P.S. Soltanto per caso fui ancora una volta a Venezia, nella tarda estate del 1999, volevo convincere un esoso editore; ma anche la scrivania, come il muro, ha due lati, uno che protegge, l’altro che esclude; io, poi, pretendevo di proporgli la storia di coloro che, per duemila anni, si erano posti sul lato sbagliato. Ero in largo anticipo -i treni hanno le loro esigenze- e tornai a camminare, stavolta sul Canal Grande e dintorni, da bravo turista. Venezia era caldissima, luminosissima, coloratissima, rumorosissima, affollatissima, davvero una cartolina; e molto giapponese. La nostalgia lottava con la voglia di andarsene, ero a disagio, adesso un forestiero, non più il viandante protetto da Hermes.
Era giusto così.

 

A PROPOSITO DI “GRABLEGUNG”

(Dichiarazione consegnata al giornalista Agostino Ghilardi, e da lui inserita nella pagina 4 dell’Osservatore Romano del 1° Novembre 1980, pagina interamente dedicata alla pittura sacra di Benelli e alla presentazione del quadro citato)

“Grablegung”: così ho voluto intitolare questo Seppellimento. Non per un vezzo, ma per il grave valore onomatopeico che la parola assume nella lingua tedesca. E poi per un omaggio a Bach: alla Passione secondo Matteo che mi ha sempre accompagnato nel meditare gli atti ultimi del dramma di Cristo. Si riallaccia, “Grablegung”, a quella Deposizione dalla Croce che intitolai “Il trafugamento della salma”; alla “Crocefissione con diciannove figure” (dove una sua parte nell’ispirazione l’ha anche Bulgakov, e con lui Rembrandt); e alla scena di Salita al Golgota cui diedi nome, con ovvio riferimento a Luca “I giorni delle sterili”.

Parlare di Grablegung non mi è facile, perché ciò che un artista esprime realmente è sempre qualcosa che travalica le sue intenzioni coscienti: onde io non mi pongo altra intenzione cosciente se non il progetto, lasciando la materia dipanarsi per una sua legge interiore. Posso perciò dire, delle intenzioni, solo qualcosa di generalissimo; e poi tentar di leggere l’opera come un ignaro -o quasi ignaro- spettatore.

La scena. È noto che Gesù fu sepolto in un orto: dunque, il paesaggio alle spalle. E vi fu bene chi dovette trasportarlo, come pure vi saranno state di certo delle pie donne -o Maria stessa- a piangerlo in privato. La tomba, si sa, era scavata nella roccia.

I personaggi. I miei personaggi sono sempre più simbolici che reali. V’è il dolore per l’irreparabilità della morte fisica (la donna con le braccia alzate come una lamentatrice mediterranea); il senso della fratellanza nel dolore (la donna in piedi, vicina all’inginocchiata); la meditazione distaccata e grave sulla realtà umana (la donna con le braccia conserte). E poi la solidarietà, il soccorso necessariamente anonimo, la trascendenza del dovere che nasce dalla ineluttabile solidarietà nella condizione umana: i due necrofori, figure iconograficamente solide e anonime come il popolo. E colui che guida, il cui occhio penetra e comanda, il vecchio. Giuseppe di Arimatea? o un Ermete Psicopompo?

E, se così fosse, la donna con le braccia conserte potrebbe essere una Sophia? Il pioppo: simbolo della morte. La quercia: simbolo della vita eroica. L’acqua, che purifica e rigenera e sempre scorre. La casa, col suo simbolismo di morte (e anche di profondità dell’inconscio). Gli elementi del quadro nascono casualmente, ma forse non sono del tutto casuali: come le canne, che si piegano al passaggio del Soffio e nelle quali il Soffio si fa Voce.

Il seppellimento avviene di notte. Così sembra che fu: ad ogni buon conto, il notturno è il suo clima naturale. Quanto al colore, vorrei rimandare per brevità a un minuscolo saggio che scrissi anni addietro sul valore espressivo dei colori. Diciamo che qui ho scelto una gamma della passione, dall’acceso (ma raramente: i papaveri e lo straccio sul Cristo) allo smorzato (le terre e i bruni), legando con i verdi e con l’arancio e intorbidando con i rossi cupi. Ho rinunciato alla contemplazione fredda (i blu) lasciandone solo un vaghissimo sospetto in lontani verdi azzurrini.

Un ultimo cenno: la forma. Non mi interessa un’arte che abbia come referente l’artistico; perciò la forma ben riuscita deve essere soltanto l’esatta estrinsecazione di un contenuto, senza sforzarsi di cercare l’approvazione di un occhio estetizzante. Quanto alla dimensione delle figure, non saprei neppure pensare un quadro alla Elsheimer.

Per gli antecedenti (gli auctores) dichiaro il mio interesse analitico per tantissimi, ma più specificamente per la pittura e la scultura greca (anche e soprattutto, ellenistica); per Masaccio, Botticelli, Caravaggio, Tiziano, Rembrandt, Monet, il tardo Renoir dei nudi e il Burri dei sacchi.